Argomenti trattati
1) Tratto da Il prezzo della libertà.
2) La storia di Raffaele Maderloni. Al giornale “Bandiera Rossa”.
3) Per leggere il libro
4) Enzo Santarelli sull’autobiografia di Raffaele Maderloni
Tratto da Il prezzo della libertà.
A cura dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Antifascisti.
Episodi di lotta antifascista Roma 1958
L’anticamera del tribunale speciale. di Raffaele Maderloni
Verso la fine dell’estate 1932 il IV, il VI e l’VIII braccio di <<Regina Coeli>> erano pieni di detenuti politici. Rappresentavano tutte le province d’Italia. Prelevavano gli operai e i contadini braccianti. Tutti i partiti antifascisti erano rappresentati, ma la grande maggioranza era costituita da comunisti, quasi tutti tra i 20 e i 35 anni di età-
Da mesi il tribunale speciale oziava mentre i detenuti si ammucchiavano sempre più numerosi in celle che dovevano ospitarne uno solo. Una notte il carcere si riempì fino all’inverosimile. Grandi retate di antifascisti erano state effettuate nei Castelli e ora gli arrestati venivano pigiati dentro il carcere romano. La vita, nelle celle, diventava sempre più dura; si desiderava l’inizio dei processi – sembra incredibile a dirsi – per poter andare in una casa di reclusione, augurandosi, magari, di capitare nel penitenziario di Volterra, dove, si diceva, era rinchiuso Mauro Scoccimarro che, si diceva, dava lezioni di economia politica.
Per le celle ricorreva il nome di Clemente Maglietta come quello di uno dei compagni più qualificati che allora si trovassero a <<Regina Coeli>> così come si parlava molto di uno studente universitario comunista: il dottorino (così lo chiamavano) Francesco Scotti e del compagno Mirotti, di Casalpusterlengo. Si narrava, da una cella all’altra, che il padre di Scotti fosse caduto fulminato alla stazione di Milano, non appena il treno che conduceva il figlio al carcere di Roma si era mosso.
Un giorno tutti i detenuti ebbero di che commuoversi profondamente. Dal muraglione del Gianicolo, che sovrasta il carcere e costituisce l’unico panorama dei detenuti, si affacciarono cinque bambini. Guardando verso i bracci presero a urlare con quanto fiato avevano in gola: <<A sor Favillaaaa… a sor Favillaaaa…>> Da una delle celle una voce risponde: <<Annate a casa!>>E i ragazzi in coro: << A papà, non possiamo, semo fori de casa…ci hanno dato lo sfratto…>> Il povero compagno, padre dei cinque bambini, si strappava i capelli per la disperazione. Ma non c’era niente da fare … Eravamo a <<Regina Coeli>>.
Fra i politici prendeva sempre più piede l’idea di una grande protesta collettiva per indurre il Tribunale speciale a riprendere i processi. A dar corpo e inizio a questa intenzione venne la provocazione inscenata da un detenuto comune. Questi, tornato dal processo, si mise alla finestra della sua cella, al VII braccio, e annunciò a squarciagola che il suo avvocato gli aveva garantito che il governo, in occasione del decennale della <<marcia su Roma>>,andava preparando un decreto di amnistia. E fin qui nulla di male, ma poi attaccò una sfilza di evviva al duce, al regime e a quanto altro poté ricordare della gerarchia fascista.
Un finimondo di urli e fischi coprì il provocatorio panegirico, poi le urla <<abbasso Mussolini>>, <<morte al fascismo>> divenne un coro scandito da tutti i politici. Dalle <<Mantellate>> risposero le detenute politiche e per un bel pezzo si sentirono da molto lontano.
Questo episodio servì a creare un’atmosfera sempre più infuocata. Attraverso i normali mezzi di comunicazione funzionanti fra i detenuti, si decise di approfittare della ricorrenza fascista del 28 ottobre per rifiutare il pranzo speciale e fare per un giorno lo sciopero della fame allo scopo di reclamare la ripresa dei processi.
Alla preparazione della agitazione parteciparono Maglietta, Scotti, Mirotti e Premoli, quel Premoli che ci risultava essere stato ad Ancona per riorganizzarvi il Partito Comunista. Va rilevato che, allora, <<radio cella>> affermava che detenuti a <<Regina Coeli >> vi fossero oltre cento tra funzionari e <<corrieri>> del Partito Comunista.
La giornata del 28 ottobre passò in digiuno e tra continue acclamazioni alla Russia del Soviet e vituperi al fascismo.
Nei giorni successivi filtrò da una cella all’altra l’idea di salutare l’alba del 7 Novembre, anniversario della Rivoluzione di Ottobre, con il canto di tutti i detenuti. Inutile dire che si doveva cantare <<l’Internazionale>>.
Sarebbero senz’altro fioccate le punizioni, ma l’entusiasmo andava divampando; si raccontavano gli episodi di fermezza di cui gli antifascisti erano stati protagonisti dinanzi al Tribunale speciale; delle sentenze di condanna accolte al grido di << abbasso il fascismo>> e delle conseguenti supplementari pene irrogate per questo nuovo reato. Destavano anche grande entusiasmo i racconti sui compagni che avevano iniziato il transito dalla stazione di Roma al carcere al canto degli inni proletari e antifascisti. Le condanne che avevano riportato per questo loro atteggiamento ribelle erano per noi incentivo di più.
La notizia della amnistia concessa dal governo fascista per il <<decennale>> gettò olio sul fuoco del nostro entusiasmo. Venne l’alba del 7 novembre. Prima che la campana suonasse la sveglia, nel silenzio che ancora avvolgeva il tetro edificio, nell’imminenza di quanto doveva avvenire, i nostri cuori parvero fermarsi. Bello era dimostrare che il carcere non aveva fiaccato lo spirito degli antifascisti, scrollare di dosso, una volta tanto, il peso del regolamento carcerario, dar sfogo alla prepotente volontà di urlare, di cantare di sentirsi vivi, più vivi.
Il silenzio si ruppe d’un tratto. Una voce giovane, argentina. S’innalzò da una cella intonando <<compagni, avanti, il gran partito …>> centinaia di voce ripresero la strofa: <<noi siamo dei lavoratori…>>. Il poderoso canto si elevò solenne, rimbombando per tutti i bracci del carcere, salendo verso il colle che ospita i monumenti a Garibaldi e ad Anita.
Come una frustata, un grido lacerò l’aria, ancora piena di canti: <<Aiuto compagni, mi ammazzano!>> L’invocazione ci giungeva da una cella del piano sottostante. <<Assassini, lasciatelo! Vigliacchi!>> urlammo da ogni cella. Poi seguì una baraonda infernale. Nella mia cella Antonini, un robusto operaio romano, si lanciò contro la porta, per sfondarla; l’urto poderoso fece volar via lo sportello dello spioncino: certamente non era stato chiuso per sorprenderci mentre cantavamo. In qualche modo la direzione aveva saputo delle nostre intenzioni. Pare che nelle altre celle accadesse quanto avveniva da noi: il frastuono degli sportelli che cadevano un pò dappertutto sui ballatoi aumentava la confusione. Ormai erano più di tremila detenuti che urlavano e chiedevano che le porte venissero aperte. Canti, grida, strepiti, vetri infranti, <<gamellini>> e buglioli che volavano con orribile fracasso mentre i secondini si affannavano a implorare di smetterla, ci giuravano che il compagno che aveva gridato aiuto era stato lasciato in pace e non correva più alcun pericolo.
Poco dopo arrivarono al carcere i primi plotoni di milizia, carabinieri e marinai e lentamente ritornarono calma e silenzio.
Il 9 novembre i primi gruppi di politici amnistiati lasciavano il carcere. Andavano a riprendere la lotta fino alla caduta del fascismo: questo era l’impegno che tutti, prima di lasciare il carcere, si scambiarono.
Rimasero solo alcune decine di detenuti, quelli ritenuti più pericolosi, Tra questi il gruppo di antifascisti anconetani di cui facevo parte. Dovevano passare altri quaranta giorni prima che si decidessero a rilasciare anche noi in quella libertà vigilata che si godeva in Italia fino a che il fascismo non cadde sconfitto.
Raffaele Maderloni ( Raffa)
La storia di Raffaele Maderloni.
Al giornale “Bandiera Rossa” – ANCONA
Con preghiera di pubblicazione 1-2
Titolo: Ancora una precisazione sul “caso Maderloni”.
La Commissione Regionale Marchigiana per la qualifica di partigiano ha risposto come doveva all’articolista del “Lucifero”. MADERLONI RAFFAELE E’ PARTIGIANO COMBATTENTE. Ciò è documentato. Rimane da fare un’altra precisazione e cioè quale fu la mia attività politica prima dell’otto settembre 1943 e quale fu la causa che motivò la mia espulsione dal P.C.I.
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Presentazione – Claudio Maderloni
Si sedevano attorno ad un tavolo nella nostra casa a Valle Miano, ed iniziavano interminabili discussioni. Erano i “compagni” di mio padre, quelli che avevano condiviso anni di lotte, di sacrifici, di gioie e di amarezze, sia durante la clandestinità che nella lotta partigiana. Iniziavano sempre dalle questioni politiche del momento ma finivano inevitabilmente con il parlare dei ricordi. Quelle storie mi hanno sempre affascinato. Erano storie che parlavano di uomini e donne in carne ed ossa, storie piene di angosce, di gesti semplici che a me sembravano eroici. Dai loro racconti sentivo molta amarezza, per un fatto in particolare che era accaduto dopo la liberazione, e alcune frasi mi sembravano troppe dure, e non riuscivo a capire. All’età di sedici anni, come iscritto alla F.G.C.I.: frequentavo la Federazione Provinciale ed ho cominciato a chiedere spiegazioni sulla vicenda di mio padre che dopo tanti anni veniva ancora definita il “caso Maderloni”. Il tempo passava ed io conoscevo la storia di mio padre attraverso i suoi scritti e i racconti di quei compagni, ma mi mancava la parte ufficiale quella che sicuramente doveva stare negli archivi del partito. Molti furono i no, i non conosco, i non ricordo. Riuscii a convincere mio padre a sistemare i suoi ricordi e ne facemmo 40 copie, ma per la pubblicazione non voleva saperne perchè non voleva dare un’arma agli avversari da usare contro il partito. Doveva diventare Segretario della Federazione del PCI Augusto Burattini (1989) perché potessi vedere il materiale, e leggere documenti inediti che riguardavano mio padre che lui stesso non aveva mai potuto vedere, come una lettera inviata dal Segretario della Federazione di Taranto che scriveva al Segretario della Federazione di Ancona ricordandogli il viaggio e l’arresto a Milano nel 1926. Durante alcune presentazioni del libro “Ottavo chilometro” scritto da Caimmi Wilfredo e Antomarini Edo molti volevano sapere di quella storia e soprattutto compagni anziani mi chiedevano perché non venissero pubblicate le memorie di mio padre. Tutti comunque mi confortavano dicendomi di andare fiero di Raffa, che li aveva aiutati a diventare prima di tutto uomini liberi. Sono convinto che la storia di mio padre sarebbe stata sicuramente un’altra se non avesse avuto al suo fianco una donna come mia madre Rinalda. Questo lavoro dovrebbe essere dedicato a molte compagne e compagni, ma credo che solo lei possa dire quanto sacrificio gli è costato stare accanto all’uomo che ha amato. Ed è a lei che lo dedico anche perché in tutto il libro non viene mai menzionata se non per aver risposto di no alla richiesta del partito di lasciare suo marito. Una donna che resta sempre al suo fianco, nei momenti belli, ma soprattutto in quelli più brutti, che lavora giorno e notte per non far mancare nulla ai suoi figli, per dare dignità alla sua famiglia, che ringrazia il partito di averla fatta diventare una protagonista della storia anche se non viene mai menzionata. Credo che questo libro possa in qualche modo ristabilire una verità, e riscattare tanti compagni, ne cito uno per tutti, Aldo Pelliccia che è rimasto sempre vicino a mio padre anche quando le circostanze non lo consigliavano.
Un ringraziamento all’Istituto Gramsci Marche.