17 Maggio 2024

Prima di tutto vorrei rivolgere i miei sentiti ringraziamenti all’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti per la straordinaria iniziativa che si è tenuta a Ventotene il 22 settembre scorso.

L’iniziativa ha coinvolto sia me che i miei fratelli (Uliano e Riccardo) in quanto figli di uno dei 2330 condannati al confino politico sull’isola di Ventotene.
La prima volta che sono arrivato a Ventotene, circa dieci anni fa, ho fatto fatica a ritrovare le tracce storiche di quanto accaduto Ora vi è questo memoriale, situato nell’area che ospitava la cittadella confinaria: una parete lunga 14 metri con i nomi delle persone che lì furono confinati a causa delle loro idee politiche.
Erano presenti anche i rappresentanti dei diversi centri studio e documentazione che sono sorti nelle diverse isole che hanno condiviso la stessa sorte. E vi è stata anche occasione per discutere sulla necessità di creare un coordinamento per tenere alta la memoria di quanti sacrificarono le loro vite e quelle dei loro familiari al bene più alto della democrazia, nella fiducia in un possibile mondo migliore.
Dopo il saluto della rappresentante dell’Amministrazione Comunale e l’intervento del presidente nazionale dell’ANPPIA, Spartaco Geppetti, ho portato il mio saluto in rappresentanza dei familiari di quei confinati.
Vedevo attraverso quei nomi i visi di tanti che ho conosciuto ed essere lì a rappresentare quel mondo così composito, quelle persone di così elevato valore e spessore, mi ha fatto battere forte il cuore.
In famiglia eravamo quattro fratelli, non era presente Roberto, il maggiore, che è deceduto qualche anno fa. Roberto era già nato quanto nostro padre fu condannato e sicuramente è stato quello che ha pagato direttamente il prezzo più alto.
Ricordare nostro padre, proprio lì a Ventotene dove è giunto con una condanna a cinque anni (dopo anni di emarginazione, miseria -per le sue idee aveva perso il posto di lavoro – e carcere) è stata una esperienza di grande impatto emotivo.
Ho ricordato il sacrificio di tanti: mio padre che una volta finito il periodo di confino ha proseguito la sua battaglia con la lotta clandestina e partigiana fino alla liberazione e alla conquista della democrazia; mio zio Alfredo Spadellini, fuggito in Francia perché ricercato dal regime fascista, combattente in difesa della repubblica spagnola, comandante partigiano per la liberazione delle Marche; tante e tanti confinati antifascisti che da questo luogo hanno saputo elaborare l’idea di un’altra Europa, ragionare sui principi della nostra Carta costituzionale.
Ho rivolto un pensiero affettuoso anche a Carlo Smuraglia, partigiano combattente, volontario nel Corpo italiano di liberazione, fino al 2017 presidente dell’A.N.P.I., il suo amore per la Carta costituzionale, e il suo insistente ricordare che chiunque avesse giurato su questi principi non poteva essere portatore di odio e di razzismo;

Nell’anno 2010 mi sono recato presso l’archivio di stato di Latina per prendere visione della documentazione riguardante i confinati marchigiani: dalle carte e dalla corrispondenza mi è parso subito chiaro quanto grande sia stato anche il sacrificio delle famiglie, delle donne che restavano a casa, in molti casi in situazione di profonda miseria. Ho voluto ricordare loro e anche nostra madre Rinalda Ciasca e i suoi racconti: durante il fascismo la sua abitazione era sistematicamente violata dalla polizia alla ricerca di materiale sovversivo con l’obiettivo latente di intimorirla; le lettere che riceveva dal confino erano metodicamente censurate… È stato così che ho compreso il profondo valore degli articoli 13 – 14 e 15 della Costituzione che sanciscono le libertà come diritto essenziale di ogni persona.
Ecco, quel muro con tutti quei nomi di persone che avevo conosciuto o di cui avevo sentito parlare, mi è sembrato una cosa viva, che parla delle diversità delle idee ma anche della capacità di sintesi, una voce che ci indica la strada giusta.
Tornando in terraferma, guardando il molo, ho pensato a mio padre, quando mi raccontava del loro girovagare con gli schiavettoni ai polsi e di quando passando vicino alle persone gridavano “politici” per significare che non erano malfattori ma perseguitati politici: era un modo per continuare la lotta.

Claudio Maderloni

Chiaravalle 02.10.23