Chi conosceva Marisa Saracinelli sa con quanta scrupolosità preparava i suoi interventi. Questa è la trascrizione fedele del suo intervento che mi lasciò dopo l’iniziativa. Non la ringrazierò mai a sufficienza per quanto mi ha insegnato.

Di MARISA SARACINELLI

Presentazione del libro “Raffaele Maderloni. Ricordi 1923 -1944”

Jesi   – Associazione / Istituto Antonio Gramsci

 

 

 

 

Prima di entrare nel merito del libro, che oggi viene presentato, ritengo opportuno fare qualche rapida considerazione sul valore dell’autobiografia (su cui per altro esiste una vasta letteratura) e quindi sulla memoria.

L’autobiografia è di per sé legata alla soggettività e solo in tempi relativamente recenti essa è entrata nella storia, ne è diventata una fonte legittima.

E questo è un dato molto importante che conferisce dignità storica alla memoria soggettiva.

Ma è anche qualche cosa di più: scrive Luisa Passerini, esperta di testimonianze orali, che l’autobiografia consente ad un soggetto di “essere nella storia, di avere una storia” anzi la Passerini rivendica il “diritto all’autobiografia”.

Resta tuttavia un problema che riguarda tutte le narrazioni autobiografiche, che è quello di coniugare il soggettivo con l’oggettivo, di muoversi cioè tra psicologia e storia.

Chi scrive di sé tende a ricomporre la sua identità attraverso la memoria e la memoria mette in moto un processo attraverso il quale si rielabora il passato e se ne trasmettono significati per il presente.

Difficile definire le operazioni della memoria, dalla Passerini accolgo questo assunto: “La memoria è l’atto narrante di me individuo in un contesto sociale, nel tentativo di conferire significati condivisibili a certi eventi o aspetti del mondo ed eventualmente mettere in secondo piano gli altri”.

L’atto di narrare è nello stesso tempo memoria autobiografica, trasmissione di una esperienza di vita, ricomposizione di una identità, ma anche silenzio, cose taciute.

E questo non per scelta precostituita o travisamento, ma perché tale è il funzionamento della memoria autobiografica (sulla quale è ancora aperto il dibattito).

Di qui la necessità di evidenziare anche i silenzi che hanno sempre un significato e soprattutto di storicizzarli (darò poi alcuni esempi).

Questa premessa ha lo scopo di chiarire con quale sguardo è stato letto il libro.

Questa di Raffaele Maderloni è una storia che egli definisce “semplice” in realtà intensa e drammatica, vissuta in un particolare contesto storico: Ancona, la provincia, l’Italia dagli anni venti agli anni quaranta.

Una storia tesa a dimostrare l’esemplarità di vita di un militante comunista, che diventa tale “non certo per maturità politica”, come lui stesso ricorda, ma determinante fu il fascismo con la sua azione persecutoria contro i comunisti, oltre che naturalmente per lo sdegno e la ribellione contro la sua violenza brutale.

Un militante generoso che vive l’esperienza dell’antifascismo, del carcere, del confino, della resistenza e che, alla fine della guerra, viene colpito da una accusa infamante “tradimento”, espulso dal partito per esserne poi riammesso ventinove mesi dopo e quindi riabilitato.

Sono duecento pagine che partono da una premessa dello stesso Maderloni: “i casi della sua vita” hanno come destinatari i suoi figli, perché sappiano la verità e ne traggano insegnamento.

Contestualmente, risuona alta la condanna contro il pregiudizio, il settarismo, di chi precipitosamente volle arrivare ad una conclusione ingiusta, sbagliata, quale fu l’espulsione dal partito.

C’è una evidente circolarità nella struttura narrativa dei Ricordi: l’incipit della storia, appena citato, si ricollega con la conclusione ”qualche precisazione”: sono venti pagine finali che ricostruiscono con minuzia l’ultimo atto dell’accusa infamante alla assoluzione, che tuttavia non rimargina la ferita.

Dentro queste due coordinate si snoda la vicenda umana e politica di “Raffa”, rivissuta con puntigliosa precisione che restituisce alla fine un ritratto a tutto tondo, ma anche con alcuni significativi silenzi (su cui tornerò).

Sostiene Papini, nella introduzione, che queste memorie si possono leggere in tanti modi, ognuno di essi di qualche interesse, ed è vero.

Papini stesso ha offerto alcuni percorsi di lettura, ha posto interrogativi, suggerito ipotesi interpretative, concludendo con un ringraziamento rivolto allo stesso Maderloni, perché con le sue memorie “se non altro smentisce l’immagine del comunista, privo di personalità, tutto apparato e niente umanità”.

Sinceramente questa “conclusione” mi ha lasciato un po’ perplessa, perché l’ho trovata un po’ riduttiva rispetto ad un personaggio come Maderloni al quale per altro lo stesso Papini ha rivolto la sua attenzione nelle “Biografie di comunisti marchigiani: da Livorno alla clandestinità”.

Biografia che così inizia “Pochi dirigenti del PCI marchigiano hanno suscitato sentimenti tanto contrastanti come Raffaele Maderloni” e così conclude “Il compagno Maderloni non mancò di contribuire a rendere viva la dialettica nel partito anconetano”.

Da parte mia, desidero precisare che non mi addentrerò nella lettura “politica” del libro, forse ancora difficile, nonostante le profonde trasformazioni ideologiche sopravvenute in questi ultimi anni (lo farà credo Ruggero Giacomini). Mi limiterò a focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti, che a me sembrano significativi, con questa altra annotazione: ho letto il libro con emozione, perché la storia di Maderloni mi ha fatto rivivere fatti e personaggi, che hanno attraversato la mia adolescenza, intrecciare tra loro fonti diverse ed illuminarle (anche se di questo non parlerò).

La prima cosa che colpisce nell’autobiografia è la passione politica che  connota tutta la vita di Maderloni e germoglia in modo del tutto autonomo, come risposta ad una esistenza segnata dalla povertà da un lato (orfanotrofio), da un lavoro spesso massacrante (quando c’è), ma dall’altro da un bisogno forte di giustizia sociale che lo spinge, giovanissimo, a cercare di capire, ma anche di reagire contro la violenza gratuita del fascismo (pag. 29) – aggredito da fascisti avvinazzati subito dopo la loro invasione di “Ancona città rossa” (pag. 33).

Il bisogno di cultura è una nota forte: tornato dal servizio militare nel 1928 “si sprofonda nella lettura”.

Si abbona ad una libreria circolante e legge ciò che può, ma “i libri ameni” non gli sono di alcun aiuto per quello che cerca di sapere: “classi, lotta di classe, ferree leggi dell’economia, diritto, morale, religione, lo Stato con le sue sovrastrutture mi è ignoto. Nota e convincente c’è solo la mia condizione di lavoratore in preda alla necessità dell’esistenza e sono convinto che tutti gli altri lavoratori la pensino come me”.  E aggiunge con rammarico: “La stampa del partito che ho distribuito tra il ’23 e il ’26 è passata tra le mie mani senza lasciare traccia, preoccupato soltanto della sua diffusione”.

Poi, la sete di cultura viene in parte soddisfatta con libri che il fascismo ha lasciato in circolazione ed altri che vengono scambiati tra i giovani comunisti “clandestinamente” si va dal Mariani, al Notari, a Victor Hugo, a Carlo Pisacane, a Repaci, fino alla scoperta di Jack London e “La madre” di M. Gorki.

Ma sarà il confino nell’isola di Ventotene ad accrescere la sua cultura politica perché nell’isola i confinati comunisti organizzano gruppi di studio, soprattutto su economia politica e storia del movimento operaio.

Dello studio aveva grandemente bisogno (pag. 85): oltre l’economia politica, si “inoltrò” nel terreno filosofico leggendo il Materialismo storico di Bucharin tradotto dal francese da alcuni compagni (pag. 86).

Tornato dal confino, poiché il direttivo del partito ha deciso di affrontare il problema del lavoro ideologico e della diffusione delle idee con la stampa, si organizzano gruppi di studio utilizzando il materiale che Maderloni ha portato da Ventotene, unito ad altri testi che si riesce a reperire.

Il materialismo storico di A. Labriola e il Manifesto dei Comunisti, unito alle costituzioni inglese, francese, americana.

Grande effetto ebbe nel 1938/39 la proiezione al cinema Goldoni del film “Tempi moderni” di Chaplin (pag. 94).

Se insisto su questo tema della cultura, è perché a me sembra di grande spessore.

F. Flora: ritratto di un ventennio:  – 23 marzo 1939 – non pubblicare più lettere intime di D’Annunzio – 31 ottobre 1938 – non occuparsi di eventuali candidature di scrittori e uomini italiani per il premio Nobel anche se le proposte sono fatte da giornali stranieri. – I giornali si astengano di parlare della Storia della letteratura italiana del De Sanctis nella edizione pubblicata    in questi giorni dalla Hoepli finché non esca la II edizione. – Non occuparsi di Moravia e delle sue pubblicazioni

– Non occuparsi del libro di L. Russo “La critica letteraria contemporanea (Laterza) – Interessarsi della Storia della rivoluzione fascista di Gioacchino Volpe. – Non dare troppo rilievo al manifesto di Marinetti. – E’ bene insabbiare la polemica sulle varie tendenze dell’arte italiana. Il fascismo mostrava disprezzo per le opere di pensiero che considerava povere ancelle dell’azione; del resto il primato dell’azione sulla cultura fu sempre sostenuto dai dittatori.

Al disprezzo per la cultura si univa un controllo capillare di tutta la stampa e le pubblicazioni: nelle famose “veline” che ogni giorno arrivavano nelle redazioni dei giornali venivano impartiti ordini di ogni tipo: per questo la sete di sapere dei giovani militanti mi pare significativa: ma io aggiungo anche un ricordo personale (v. G. Gobbi – vedi documento).

In questo tema si inserisce l’episodio della madre di Maderloni “I miracoli dell’amore materno”: analfabeta, impara a leggere e a scrivere per poter comunicare con il figlio al confino. La Madre di Gorkij è il testo base che la donna legge e rilegge. Una pagina commovente che conferisce alla donna una grande statura (pag. 85).

Le altre donne, invece, fanno un’apparizione fugace (se si esclude la manifestazione del marzo 1943): da Adalgisa Breviglieri “una insegnante di scuola elementare” alle mogli di compagni che “provvedono” a cuocere il pasto per una ventina di detenuti, alla suocera Maria Ciasca “una coraggiosa e intelligente romagnola” alla stessa fidanzata prima e moglie poi.

Di questa donna soprattutto sappiamo poco, ma una frase ne illumina il temperamento: quando Raffa la prega di non legarsi alla sua vita, poiché prevede anni di carcere, lei risponde: “aspetterò trent’anni!”

Nella ricostruzione della sua vicenda politica la presenza della moglie e dei figli rimane nello sfondo ma questo non ci deve stupire: Maderloni è teso a “narrarsi” per dare un senso alla propria vita.

Per lo stesso motivo colpiscono certi silenzi che accompagnano altri momenti: nessun riferimento paesaggistico quando è nell’isola di Ventotene, come se ogni divagazione togliesse forza all’impegno politico.

Chi legge i suoi Ricordi ed intreccia tra loro alcune fonti storiche (di varia natura) non può non ricavarne l’immagine di un uomo generoso, capace di dare corpo ad alcune iniziali e confuse esigenze di giustizia, di infonderle in altri giovani, che lo seguono sulla strada dell’antifascismo e della Resistenza.

Richiamo brevemente il ritratto che ne fa Caimmi nel suo recente libro “Ottavo chilometro” (pag. 36) “All’ottavo chilometro, vicino all’Aspio, lungo la strada che esce a sud di Ancona, si trova il Centro del Partito, in una casa di contadini, una delle tante dove sono ospitate famiglie sfollate dalla città, con quella solidarietà che costituisce la prima grande nemica del fascismo, perché è il mare in cui nuotano i pesci della clandestinità. Raffaele Maderloni, detto ‘Raffa’, è il capo riconosciuto della struttura clandestina. E’ stato il costruttore del Partito, ha subito per questo la repressione del fascismo: arrestato più volte, confinato, rientrato e, subito, tornato al lavoro di organizzazione della struttura nell’anconitano ed in parte delle province di Macerata e di Pesaro. I giovani, soprattutto, lo amano moltissimo ne ammirano le doti umane prima ancora delle capacità politiche e per Raffa sono disposti a tutto. Anche per questo i fascisti lo cercano, lo braccano, vorrebbero riprenderlo. Ma per lui c’è la protezione particolare: quella della gente del quartiere dove è rimasta la sua famiglia, quella dei contadini disposti a rischiare la vita pur di tenerlo nascosto in casa loro, quella dei militanti che gli impediscono di partecipare ad azioni, di rischiare la vita, perché Raffa e solo Raffa, con poche, rapide parole, può mandare uno di loro in montagna, a rischiare la vita per le ragioni che Raffa e solo Raffa ha saputo spiegare loro.”

Che oggi i tempi siano ormai maturi per restituire a Maderloni il senso della sua vita (quello che egli cerca di fare con la sua autobiografia) lo dimostra il fatto che in così poco tempo ci si sia occupati di lui in modo tanto diffuso (tre libri che lo riguardano).

Un’ultima considerazione.

Anche alla famiglia va restituita il senso della sua vita: ai figli e alla moglie, che nei Ricordi sembrano vivere solo nello sfondo.

Scrive nella sua breve presentazione il figlio minore Claudio Maderloni, riferendosi a suo padre e ai suoi compagni: “quelle storie mi hanno sempre affascinato. Erano storie di uomini e donne in carne ed ossa, storie di angosce, di gesti semplici che a me sembravano eroici”. Claudio recupera forse inconsapevolmente un noto passo di una lettera di Antonio Gramsci, che dal carcere scrive al figlio Delio esortandolo ad amare la storia “perché riguarda gli uomini viventi … che lavorano e lottano e migliorano se stessi”.

E’ sempre Claudio che convince il padre a sistemare i suoi ricordi, ma non lo convince a pubblicarli: rimane ferma in Raffa la volontà di non offrire un’arma agli avversari del partito.

Ma, a mio parere, nella presentazione pur così essenziale e quasi piena di pudore, una frase merita di essere sottolineata, e con questa chiudo: “Sono convinto che la storia di mio padre sarebbe stata sicuramente un’altra se non avesse avuto al suo fianco una donna come mia madre Rinalda. Questo lavoro dovrebbe essere dedicato a molte compagne e compagni, ma credo che solo lei possa dire quanto sacrificio gli è costato stare accanto all’uomo che ha amato. Ed è a lei che lo dedico anche perché in tutto il libro non viene mai menzionata se non per aver risposto di no alla richiesta del partito di lasciare suo marito”.